Dunque Robin Williams si è suicidato perché depresso ed era depresso perché non aveva niente a cui pensare perché ricco. Funziona così: è ‘casta’ qualsiasi cosa possa meritare invidia in una società costruita sulla bile. E intanto siamo un posto (niente di più, davvero, è la parola più dignitosa da spendere, posto) incapace di cogliere la depressione come malattia. Sei depresso? è un tuo vizio, niente di più. Anzi, beato te che hai il tempo per deprimerti come se la depressione fossero avanzi che sbrodolano per forza dal superfluo. Eppure, udite udite, sono stato depresso anch’io. Mica poco. O almeno abbastanza da temere di esserlo ancora, come tutti i depressi di questo mondo. Niente di scritturabile come sceneggiatura di successo a puntate on demand ma so bene che odore ha questa stanchezza piena di sensi di colpa subito alla prima mattina o questa poca voglia di parlare con chiunque non sia lontano poco più di un metro dal proprio letto. Ho pensato alle cose peggiori, quelle che farebbero così comodo ad alcuni mafiosi, alcuni antimafiosi e i loro padrini politici e ho perso importanti occasioni della vita. Ho perso delle elezioni. Le ultime, quelle del dopo Formigoni, schiacciato tra l’elettricità di una sfera personale in piena ebollizione e un mondo politico lombardo che inseguiva il marchio pulito per nascondere la merda bipartisan. Ho perso amici, una caterva, quintali di persone vicine a cui non sono riuscito nemmeno a dire un grazie, un aspettami che poi ritorno oppure semplicemente una richiesta di aiuto. Ho avuto il corpo e la bocca fermi mentre nel cervello passavano tutte le cose che avrei dovuto fare o dire almeno per essere educato (per chi, poi?) mentre guardavo scivolare via un aperitivo od una riunione come se fosse un brutto film in seconda serata, da spettatore passivo. Ho nascosto la malattia per la paura di sembrare un debole mentre nascondevo il marcire nelle mie debolezze. Ho urlato senza senso e poi mi sono frollato nei miei sensi di colpa, e poi ancora mi sono ucciso per il mio senso di soddisfazione nel sentirmi in colpa e poi ancora mi sono sentito in colpa per il mio stupido modo di sentirmi in colpa. Ho visto nero, dappertutto, contando le briciole degli altri per difendermi dai miei buchi che sanguinavano in giro. Sono stato depresso, insomma, depresso tutto per bene con la malattia nascosta a tutti come fanno i depressi che si convincono di farcela da soli almeno per non doverlo raccontare a nessuno.
E allora?
E allora ho pensato che non sopporto un posto (appunto) ed un momento in cui temete i fragili perché siete codardi. Perché temete di non avere energie anche per loro come se ci fosse una competizione tra malati e sani. Ho pensato che una malattia non curata per ignoranza piuttosto che per incuria è una malattia che pesa come l’onta di un peccato mortale. Mi sono detto che non avrei perdonato la superficialità con cui si affibbia a qualcuno una depressione per vizio e l’avrei combattuta tutte le volte. Con la fierezza di essere fragile. Anzi: di essere stato fragile sapendo che lo potrei essere di nuovo ogni altro momento della mia vita. E rivendico il diritto di essere debole. A tratti. Perché per qualcuno il riposo è la cura di una malattia e voglio un paese che mi accudisca. Sì. Prendendosi cura delle fragilità come un bene prezioso.