Fa discutere la reazione di alcuni genitori milanesi spaventati dalla vicenda umana di Gianluca Maria Calì, l’imprenditore siciliano che ha alzato la voce contro la mafia rifiutando il meccanismo perverso del pizzo e finito sotto protezione come spesso succede in questa Italia dove costa tantissimo essere giusti.
Conosco Gianluca e la sua storia e conosco Milano troppo bene per non dispiacermi di una situazione che nuoce a tutti ma che ha colpe molto più in alto: da una parte Gianluca subisce l’onta di essere considerato ammirevole ma soprattutto pericoloso come se rimanesse sotto traccia un giudizio di dissennatezza per quello che ha fatto piuttosto che di gratitudine: dall’altra parte ci sono i genitori che vivono l’ansia di una paura dovuta all’analfabetismo di un città che dimostra ancora una volta di avere tanto, troppo, da imparare.
Del resto lo stesso Calì dichiara di essersi trasferito con la famiglia a Milano per evitare “comportamenti di questo tipo” mentre c’è gente che da Milano è fuggita per lo stesso motivo.
Perché spero che siamo tutti d’accordo che l’analfabetismo sociale (e affettivo) intorno ai testimoni di giustizia (e in generale ai “giusti” che abbiano preso posizioni forti) sia un dovere della politica. Della politica. Della politica. Della politica. Tutta.