Un anno di governo Meloni. Draghi è ormai soltanto un ricordo e all’orizzonte ci sono le elezioni Europee della prossima primavera. Tempo di pagelle.
Giorgia in retromarcia a trecentosessanta gradi
Il/la presidente del Consiglio è come quegli oggetti che vedi su internet, sono bellissimi e convenienti e poi ti deludono quando ti arrivano a casa. Qualcuno la chiama “crescita” ma i primi dodici mesi di Giorgia Meloni sono una vera e propria inversione a U (anche se lei sbagliando direbbe “a 360 gradi”): chi l’ha votata per il suo antieuropeismo e antiatlantismo se l’è ritrovata in ripetute gite con von der Leyen e l’ha vista sorridente e ligia con Biden. Chi l’ha adorata per il vigore con cui stilettava Draghi ora l’ascolta proporre le stesse identiche ricette con molta meno autorevolezza, chi non vedeva l’ora che chiudesse i porti ora si sente dire che era solo una “metafora” e chi l’ha scelta per quel fantastico video in cui se la prendeva con le accise della benzina ora deve accendere un mutuo per fare il pieno. Giorgia Meloni è l’esempio più lampante del trasformismo per il potere che legittima tutto e il suo contrario. Ci si potrebbe chiedere come possa funzionare un così sguaiato tradimento delle promesse. Semplice: con il vittimismo. Ciò che più conta per Meloni è convincere i suoi elettori che non sia colpa sua. Così i primi dodici mesi in cui avrebbe dovuto governare la leader di Fratelli d’Italia li ha passati a opporsi all’opposizione, a lamentarsi di un’egemonia culturale della minoranza, a vedere nemici immaginari sulle coste dell’Africa e a prendersela con quelli che hanno governato prima di lei. Voto 4: sembra Draghi.
Dodici mesi di nulla: è Capitan declino
Il leader leghista l’hanno parcheggiato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pensando che non potesse fare troppi danni. Si sbagliavano. Dopo essersi ribaltato da solo in un parcheggio deserto nella precedente legislatura Matteo Salvini ha mancato anche quel ministero dell’Interno che almeno gli avrebbe lasciato un’ombra di sorriso. Così da dodici mesi rosica per l’occasione persa che non gli capiterà mai più e con la slealtà che gli è naturale gioca sottobraccio per erodere l’alleata presidente del Consiglio. Nelle stanze della Lega ormai tutti sanno che le prossime elezioni Europee potrebbero sancire anche il suo declino all’interno del partito così Salvini faticosamente sta tentando di recitare ancora il vecchio copione che aveva fatto esplodere i consensi. Vuole sembrare “l’uomo del fare” ma dal suo ministero di competenza non è arrivato nessun segnale di un sensibile cambiamento. Si è buttato sul Ponte sullo Stretto che denigrava fino a qualche mese fa per inseguire il sogno di un’Ottava meraviglia da lasciare a futura memoria. Quando si è sentito all’angolo ha estratto il suo tormentone preferito: i migranti. L’opportunità politica suggerirebbe di non litigare ogni giorno con qualche leader europeo per non mettere in difficoltà la sua presidente del Consiglio, ma lui lo fa proprio per quello. Solo a settembre, secondo il report di Arcadia, ha pubblicato su Instagram ben 192 contenuti. Voto 3: infedele.
Ormai Silvio non c’è più, ma è più vivo di Tajani
Dicono in Forza Italia che alla morte di Silvio Berlusconi non erano pronti perché “Silvio è insostituibile”. Così il leader di Forza Italia e ministro agli Esteri ha preso la decisione più semplice: non sostituirlo. Antonio Tajani non è un leader di partito, Tajani è diventato il sacerdote di un funerale cronico ed è diventato il terapeuta di un gruppo incapace di elaborare il lutto. L’azione politica di Forza Italia è l’ologramma di Berlusconi che si aggira tra i banchi del governo. È tutto un inventare azioni “in memoria”, cercare parchi e sale da intitolargli e agitare feticci e vedove. Anche lo scontro interno che aveva spaccato il partito con Berlusconi in vita sembra essersi progressivamente sopito. Il leader di Forza Italia si alza ogni mattina con il terrore che il partito si sia dissolto e con l’onere di gestire un gruppo parlamentare composto da persone con un solo chiodo fisso: riposizionarsi, senza sbagliare tempi e destinazioni. Una cosa è certa: la memoria politica di Silvio Berlusconi è più attiva di Tajani da vivo. Così a guardarlo da fuori sembra di assistere a una lenta e lunga agonia. A Tajani spetta la terapia del dolore. Voto non classificato: ologramma.
Elly ci prova ma… Nel Pd il problema è il Pd
La segretaria del Partito democratico ha un grosso problema: il Partito democratico. Elly Schlein nel giorno della sua vittoria contro Stefano Bonaccini per la guida del Nazareno ha promesso di rivoluzionare il partito ma per ora la rivoluzione sembra legnosa e poco comprensibile all’esterno, soprattutto tra i suoi sostenitori non organici al Pd che si ritrovano spesso gli stessi caporali locali sotto nuove e mentite spoglie. Con un lavoro paziente sta cercando di rimettere i Dem all’interno di un’alleanza larga e credibile che possa evitarci un ventennio delle destre. Certo non è facile ricucire con chi (da Conte a Fratoianni a Calenda) sulla differenziazione dal Pd costruisce molta della propria identità politica e quindi lo bombarda spesso e volentieri. Il punto sostanziale è che fare opposizione a questo governo sembra davvero facilissimo: si potrebbe sottolineare la disumanità degli accordi sull’immigrazione se non ci fosse qualcuno all’interno del Pd che li rivendica come un colpo di genio di Minniti; si potrebbe sottolineare il disastro di un mondo del lavoro con sempre meno tutele e meno diritti se non ci fosse qualcuno all’interno del Pd che rivendica con nostalgia il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18; si potrebbe sottolineare la questione umanitaria che sta dietro ogni guerra se non ci fosse qualcuno all’interno del Pd che sogna di fare il chierichetto con l’elmetto. Insomma, Elly Schlein sarebbe un’ottima segretaria del Pd se non ci fosse un certo Pd. E il tempo stringe. Voto 6: 6 politico.
L’avevano dato per finito ma Conte ha rilanciato i 5S
Il Movimento 5 Stelle guadagna consensi. C’è chi accampa il dubbio che più che di merito di Giuseppe Conte si tratti di un guadagno fisiologico ottenuto per il solo fatto di stare all’opposizione. Quel che è certo è che Conte ha salvato il Movimento 5 Stelle dalla dissolvenza che molti presunti esperti analisti prevedevano (o forse si auguravano) tenendo la barra dritta sulla vera urgenza italiana: la povertà. I suoi detrattori dicono che lo faccia in modo strumentale. Immaginiamo invece che coloro che difendono i ricchi e i potenti lo facciano per una predisposizione. In questo anno all’opposizione Conte ha rafforzato il suo ruolo di riferimento di quel pezzo di Paese che fatica ad arrivare alla fine del mese. Ma rimangono, all’interno della politica del Movimento 5 Stelle, alcune ambiguità da chiarire. Non si capisce se sull’immigrazione il terzo Conte sia il Conte I o il Conte II. Non si capisce perché su certe partite, come quella sulla Rai, sia sembrato troppo accondiscendente rispetto ai piani delle destre (peraltro senza ottenere niente in cambio). Dubbi che vanno necessariamente sciolti se davvero vuole assumersi la responsabilità di costruire un’alternativa a questa destra aprendo a vecchie e nuove alleanze. Voto 6,5: resistente.
Calenda ha rotto con tutti e un po’ forse pure lui
Il leader di Azione ha vinto il premio di ingenuo del 2023 scoprendo che Renzi fa il Renzi e non riuscendo a trattenere Calenda che fa il Calenda. Così ha passato gli ultimi mesi a svelarci concetti di cui eravamo già tutti consapevoli come se fossero un’incredibile scoperta. Nel giro di poco tempo ha rotto con il Pd, con +Europa, con Italia viva. Dice che è sempre colpa degli altri. In compenso non ha perso quel suo fare da maestrino tipico degli ossessionati “dal merito” di cui vorrebbero essere unici depositari. La politica è un’arte comunitaria e il fare comunità non è propriamente un pregio di Calenda. “Diciamolo”, direbbe D’Alema. Voto 5: in attesa di redenzione.
Renzi paladino del centro che sbanda a destra
Come lo scorpione che punge la rana rimettendoci la pelle perché incapace di trattenere la propria natura, Matteo Renzi continua a fare il Matteo Renzi con il suo partito che ormai si è trasformato in una piccola Ungheria. Sarà l’unico candidato al prossimo congresso di cui ha deciso le regole e continuerà, c’è da scommettere, a sognare di far fallire le feste degli altri. L’ultima invenzione è un’altra bugia: chiamare il suo partito “il centro” per andare a destra. Rimane fermo sotto l’albero del berlusconismo aspettando che cada qualche frutto. Gli va riconosciuto però il coraggio di mettersi in gioco per le Europee, un’elezione in cui si devono prendere le preferenze. Sempre che una volta tanto faccia quel che dice. Voto 5: il solito.
Sinistra e Verdi, pesa il caso Soumahoro
Dalle parti di Alleanza Verdi-Sinistra pesa innegabilmente in questo primo anno la gestione del caso Soumahoro. Fratoianni e Bonelli sono riusciti a scontentare sia coloro che gli imputano l’aver candidato il sindacalista senza dare ascolto alle criticità segnalate sia quelli che ritengono che il deputato non sia stato abbastanza difeso. Il gruppo parlamentare presidia i temi identitari dell’ambientalismo, del lavoro e dell’antifascismo. Qualcuno all’interno dei due partiti vorrebbe usare l’occasione delle prossime elezioni Europee per una resa dei conti all’interno. Stanno nell’opposizione non brillante a livello generale. Voto 5,5: non brillano.
Più Europa e… più diritti: un presidio prezioso
Sia benedetta +Europa che pungola la politica sui diritti civili, nella migliore tradizione radicale. Sulla gestazione per altri e sul fine vita qualche settimana fa Magi ha incalzato il Pd dicendo: “I dem tirano fuori scuse e pretesti, la verità è che hanno una maggioranza conservatrice. Manca coraggio politico, su questi temi i sedicenti partiti progressisti non decidono”. Molti lo accusano di voler fare “delle forzature”. Per fortuna, viene da dire. Voto 6: utile.
L’articolo Un anno di governo Meloni: tempo di pagelle per i leader sembra essere il primo su LA NOTIZIA.