Pronti non erano pronti. L’hanno scritto sui manifesti e l’hanno ripetuto per giorni arrabbiandosi con i giornalisti ma è bastato mettere leghisti, berlusconiani e meloniani nella stessa stanza per assistere all’indecenza che prima stava solo sui giornali. Non sono serviti gli incontri dei giorni precedenti tra Berlusconi, Meloni e Salvini, con fotografie sorridenti al seguito per nascondere una destra che oltre a essere impreparata è anche spaccata.
Silvio Berlusconi appena ha sentito profumo di potere ha limato le unghie per arraffare Giustizia e televisioni, secondo la sua antica ossessione di esercitare il potere per proteggere la sua flebile credibilità. Se a questo si aggiunge la sua proverbiale egomania che gli fa traslare in politica le sue piccole questioni private si capisce come sia riuscito a fare di Licia Ronzulli uno scoglio per un governo nel pieno della tempesta economica, della crisi energetica e della guerra alle porte dell’Europa.
Matteo Salvini è troppo occupato nel cercarsi un posto al sole. Per il leader della Lega il governo che viene continua a essere una questione personale. Perfino la scelta del ministero da occupare in questo momento è più funzionale alla sopravvivenza della sua leadership all’interno del suo partito, più che a un progetto a lungo raggio. Poi c’è lei, Giorgia Meloni, immersa nel suo percorso di travestimento politico, impegnata in un corso di buone e rassicuranti maniere che si è già sbriciolato con alla presidenza del Senato uno che è stato responsabile del Fronte della Gioventù e un putiniano di ferro (uno vero, mica uno di quelli che certi pessimi giornalisti vedono dappertutto) che forse oggi sarà presidente della Camera. L’atlantismo di Giorgia Meloni è una bugia appassita sugli scranni più alti del Parlamento.
A questo si aggiungono almeno 17 voti arrivati dalla presunta opposizione (ricca di politici che s’offrono fin dal minuto dopo i risultati delle elezioni). Troppo facile raccontarsi che la colpa sia tutto del sedicente terzo polo (che invece è il quarto). Anche se l’ipotesi fosse realistica (e non se la prendano Calenda e Renzi se dalle loro parti la credibilità è una qualità che gli riconoscono in pochi) tra i favoreggiatori di La Russa ci sono voti che arrivano anche da altro (Pd, M5s o entrambi). Gente che è disposta a pagare qualsiasi prezzo pur di poter servire. Senatori che nella loro prima votazione sono riusciti già a tradire il mandato elettorale, rendendo possibile il capolavoro politico di una destra che elegge il suo presidente senza averne i numeri. Qualcuno con il candelabro in mano – come nei libri gialli dal finale scontato – dice che la mossa “ha evidenziato la spaccatura nella destra”. Un vero capolavoro politico concorrere al fine degli avversari mettendo a disposizione i propri mezzi, in effetti.
Una cosa è certa, della prima seduta al Senato rimane il senso di vertigini tra le parole di Liliana Segre (applaudita anche da coloro che non hanno provato vergogna a scrivere La Russa qualche minuto dopo) e lo spessore della classe dirigente. Siamo sempre qui, siamo ancora qui. Siamo al potere per il potere perseguito con ogni mezzo, con qualsiasi comportamento. E viene fin troppo facile immaginare che la giornata di ieri contribuisca a qualche mezzo punto in più alle prossime elezioni. E come al solito grideranno “al fuoco al fuoco” coloro che hanno appiccato l’incendio.
Buon venerdì.