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Un’intervista. Su tutto.

intervista

Dialoghi Resistenti tra Ultimo Teatro Produzioni Incivili e Giulio Cavalli (fonte)

Ciao Giulio, benvenuto tra noi. Sono felice che un uomo come te, che ha deciso di metterci la faccia in prima persona di fronte al cancro – chiamato banalmente mafia – abbia aderito a questa nostra operazione di conoscenza reciproca e di scambio, tra coloro che si muovono giorno per giorno nella creazione del migliore dei mondi possibili e di questa società – che sempre più – dimentica i propri figli ed i propri padri, in nome di una giustizia e di uno status che sembra essere incancrenito, malato, alla deriva.

Come primo passo, vorrei che tu mi raccontassi chi è Giulio? Da dove viene? Quali le sue origini? Quali le sue aspettative?

Vengo dal profondo nord, dalla piccola provincia ultracattolica e medioborghese che sogna di sculettare come un città. Forse molto del fastidio per l’oppressione intesa in tutti i sensi nasce proprio dal fatto di essere cresciuto in un luogo in cui l’osare è di per sé sempre sconveniente. Fin da piccolo ho cominciato a studiare pianoforte, ho sempre amato la lettura e poi ho scoperto quel magico mondo che è il teatro dove entrambe le cose possono meravigliosamente convivere. E mi ci sono ritrovato dentro.

Autore, attore, scrittore, giornalista: quale il tuo obbiettivo nella società? E quali sono i risultati delle tue operazioni di denuncia e/o di sensibilizzazione?

Sinceramente il mio obbiettivo è semplicemente osservare e raccontare le storie che credo valga la pena raccontare. Non ho mai pensato al fine se non alla bellezza. Bellezza nel suo senso più etico e morale, quella bellezza che riesce a salvare e salvarci dalle brutture più ostinate. Devo ammettere che ancora oggi molto spesso rimango stupito di quanta forza possano avere le parole.

Perché hai scelto il teatro per parlare di mafia?

Perché il teatro non ha mediazioni: c’è l’attore, la sua parola, il pubblico. Basta. Nessuno si può infilare in mezzo. Quindi è il luogo più genuino dove poterci mettere la faccia e dare anche a chi ti ascolta la responsabilità di ascoltare nomi e cognomi. Usciti da un teatro non si può dire «non sapevo».

Dopo le minacce subite per il tuo monologo “Do ut Des”, ti è stata assegnata una scorta. Cosa vuol dire per un uomo di libertà, vivere sotto protezione?

Sinceramente questa moda di scorte e scortati mi lascia piuttosto indifferente. Le privazioni alla propria libertà in questo Paese sono molte e molto più quotidiane di quello che si pensa. Non credo che una persona sotto protezione debba per forza avere un’eroicità maggiore rispetto ad un padre di famiglia che fatica a mantenere la propria casa o ai tanti piccoli o strazianti soprusi che ognuno di noi deve ingoiare nella vita. Vivere sotto protezione è diventato un circo a cui non mi interessa partecipare.

Hai dei rimpianti, rispetto alle scelte che hai fatto? Quali i fallimenti? Quali i successi?

Rimpianti moltissimi. Ma mi ci sono talmente affezionato che forse rifarei gli stessi errori per non privarmi di loro. I fallimenti invece credo che siano dei sentimenti che hanno bisogno di sedimentare e quindi posso averne avuto molte sensazioni ma sarà il tempo, più di me, a setacciarli e mettermeli sotto al naso nei prossimi anni. Di sicuro ho cercato sempre di non farmi accalappiare nelle diverse correnti che mi avrebbero voluto offrire garanzie. Se dovessi sentirmi garantito diventerei muto.

Da giornalista, come vivi la manipolazione che se ne fa nell’informazione dei media Italiani? Quali le sue origini? Quali i suoi risultati?

L’aspetto peggiore della nostra classe giornalistica è l’autocensura. Qui siamo un gradino oltre la paura, siamo nel campo del servilismo. Si scrive, o meglio non si scrive, ciò che non smuove troppo i poteri in campo. Brutta cosa.

Rispetto alla lotta contro la mafia e la mentalità mafiosa, qual è – secondo la tua esperienza – il ruolo dello Stato e quale, il ruolo del comune cittadino?

In realtà una buona lotta contro le mafie prevederebbe nessuna distinzione tra cittadini e Stato ma la piena consapevolezza dell’uno e dell’altro di essere la stessa cosa. Il cittadino non è mai ‘comune’ a meno che non scelga di esserlo per vigliaccheria.

Appurato che il mondo della mafia, non è più un mondo relegato all’ignoranza, al sud Italia e alla violenza fisica del potere o di un certo tipo di potere, ma che anch’esso si è “evoluto” in modo più raffinato e colto, “contribuendo” così alla creazione di questa società che noi tutti viviamo: chi sono oggi i mafiosi e – sempre che sia possibile – come si identificano? E quali i loro campi d’azione, i loro metodi, le loro tecniche?

Sono coloro che credono che si possa usare la minaccia e l’intimidazione per raggiungere i propri scopi personali a danno del pubblico. La mafia, dai per sé, non è molto diversa nella sua natura dai molteplici egoismi che si solidificano in sacche di potere e oligarchie. Pesa solo la differenza della forma dell’intimidazione ma non la sostanza. E sui grumi privatistici direi che il nord Italia ha di sicuro la leadership e quindi trovo normale che le mani ci si trovino così bene.

Cosa consigli a coloro che pensano che le mafie, non siano un problema che riguarda tutti?

Gli chiederei di guardare fuori dalla propria finestra, sotto dal proprio balcone per scoprire quanto vivano in città piene di case invendute, faraoniche opere rimaste vuote, ipermercati così vicini l’uno all’altro oppure di bar e pizzerie bellissimi e vuoti. Dove c’è una città “dopata” significa che ci sono soldi che devono nascondersi prendendo altre forme. E spesso dietro c’è la mafia.

Chi sono le vittime della mafia?

Tutti coloro che non possono aspirare ad esercitare il diritto di avere diritti. Quindi molte di più di quelle che comunemente pensiamo.

Cosa rende la mafia così potente e cosa la rafforza?

La convergenza di interessi con un pezzo di politica, di imprenditoria e di borghesia. La mafia per alcuni è il socio migliore che possa capitare.

Come uomo di parola e di scrittura, hai un legame forte con il mondo del web e soprattutto con i social network. Quale senso dai a tutto questo comunicare – giornalmente e passo passo – i tuoi pensieri o le tue filosofie? Ed a cosa serve o a cosa dovrebbe servire l’incontro delle diversità all’interno del mondo virtuale?

Non vedo differenza tra il raccontare una storia su un libro, in uno spettacolo o dentro un blog. Mi interessa l’esercizio della parola e della memoria. In tutte le sue forme. Ritengo il web un luogo in cui stanno persone reali, come un ristorante, un chiesa o un teatro. Appunto.

Quanto, il teatro, subisce i condizionamenti della società ed in che modo?

Sempre, anche quando non se ne accorge. Uno spettacolo teatrale è uno pezzetto di vita vissuta che vogliamo mostrare agli altri perché ci appare così spaventosamente significativo.

Come definisci i tuoi spettacoli?

Mi dicono che siano civili. Io preferirei “incivili”, visto la stomachevole situazione del civilismo e del teatro in Italia.

Come vedi la situazione dei finanziamenti alla cultura ed a cosa porta questo processo – quasi clientelare –, sul lato etico e pionieristico?

Ma come possiamo aspirare ad una buona culturale se ci troviamo di fronte alla peggior classe dirigente degli ultimi cinquant’anni? Com’è possibile parlare di teatro con politici che valgono un’unghia dei loro funzionari e perseguono solo posizioni all’interno della loro ristretta realtà partitica? Il teatro va maneggiato con cura e sapienza.

“Mio padre in una scatola da scarpe” è il tuo nuovo libro, ma anche il tuo nuovo reading. Un romanzo che prende ispirazione dalla famiglia Landa. Perché hai scelto proprio loro e cosa si cela dietro la frase che si trova in copertina “Capita a tutti l’occasione di essere giusti”?

Perché credo che mi sia necessario affezionarmi alle storie minime che non hanno bisogno di grandi volumi o ricercati aggettivi per arrivare comunque al cuore. La vicenda della famiglia Landa ci descrive quanto sia difficile essere giusti. Per tutti.

Chi sono – per la maggior parte e senza doverne fare un ammasso informe – i politici che ci governano oggi e chi dovrebbero essere in realtà gli uomini e le donne di politica?

Sono quelli che governano con i sodali di Marcello Dell’Utri, gli amici di Nicola Cosentino e i figliocci (fieri) di Andreotti. Serve dire altro?

Cos’è il coraggio?

La consapevolezza di avere paura. E gestirla.

Uno degli argomenti che mi piacerebbe affrontare, è il fenomeno di pentitismo, cioè quel fenomeno che ha sostituito la dicitura “collaboratori di giustizia”, probabilmente molto più giusta e meno patetica. Certo, non dico che in alcuni casi non ci sia stata una sorta di redenzione e ammissione dei propri peccati o per meglio dire delle proprie atrocità, ma come tu ben sai, “il confino” di molti boss in altre regioni, ha permesso loro di prenderne possesso, ricreando quello strato di potere che con il tempo ha permesso loro, di invadere il nord con le stesse dinamiche sanguinarie e mafiose, già presenti quasi da tre secoli nel sud Italia.

Dove tale prassi, cioè l’utilizzo dei pentiti senza una corretta gestione e certezza che lo siano veramente, ma solo come mezzo di smantellamento delle ‘ndrine o delle cosche o dei clan, mostra le sue falle?

Per questioni di lavoro mi è capitato negli ultimi anni di interessarmi del fenomeno dei falsi pentiti, vere e proprie teste di ponte tra la criminalità organizzata e gli uomini sotto protezione. Devo ammettere che il sistema ha delle falle che sicuramente chiederebbero una riorganizzazione. Al di là del fatto che la pratica del confino sia stato un enorme errore storico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze c’è il problema di una sicurezza che viene garantita in modo troppo discrezionale. E così finisce che veri “collaboratori di giustizia” si trovino spesso in serio pericolo mentre i pentiti per calcolo usufruiscono di tutti i privilegi.

Nella storia internazionale delle detenzioni, l’Italia non ha proprio una posizione a suo vantaggio. Più volte sanzionata per il degrado ed il maltrattamento che si subisce al suo interno, continua a ripudiare la pena di morte, ma gestisce e condanna “i fuori legge” con l’Ergastolo. Naturalmente il subire il “fine pena mai”, forse a molti può sembrare giusto, ma in molti dei casi – così come descrive bene Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo – la punizione è molto più grave del reato. E vivere rinchiuso a vita, senza la possibilità di quella reintegrazione che la legge italiana prevede, può essere molto più crudele di una sedia elettrica o di una iniezione letale. Il giudicante – con molte sfumature diverse – assume tutti gli aspetti del carnefice.

So, che l’argomento è molto più complesso della domanda che ti pongo, ma come pensi vengano gestite – in linea di massima – le carceri? E dove esse non rispettano i buoni propositi – cioè il reinserimento nella società – che tanto viene sbandierato? In breve. Quali sono quei limiti oggettivi che non possono sicuramente ottenere altri risultati?

Non possiamo correre il rischio di combattere l’inciviltà con l’inciviltà e nemmeno la violenza con la violenza. Credo in uno Stato che riesca ad essere guida e ispirazione per il valore etico che riesce ad esprimere nelle proprie scelte. Devo ammettere che la mia esperienza personale di vita con tutte le limitazioni che ho dovuto affrontare per la mia protezione mi spingerebbero ad una risposta vendicativa. Ma sarebbe ingiusto. Facciamo in modo, piuttosto, che il reinserimento sociale parta da una netta presa di distanza con il proprio passato criminale e un reale servizio alle indagini e alla giustizia. Tieni conto che molto spesso il figlio di un mafioso nasce e cresce dentro una scala di valori completamente distorta e non ha gli strumenti culturali per riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto: credo che la detenzione debba essere la scoperta esplosiva di una reale alternativa. Allora davvero ha svolto il suo compito.

Ringraziandoti ancora per il tuo tempo, ti lascio con il frammento di un’intervista fatta a Assata Olugbala Shakur (attivista e rivoluzionaria statunitense di origine afro-americana), apparsa nel 1991 su Crossroad e che in un certo senso potrebbe essere modificata – cancellando la parola bianchi, e sostituendo le parole razzista/i con mafiosa/i e razzismo con mafiosità –, indirizzandone così il messaggio a noi tutti senza distinzione di sesso, colore o credo ideologico politico religioso: << Penso che sia disonesto dire che la gente bianca, che vive in una società razzista, che ha un’educazione razzista da parte di maestri razzisti e spesso con parenti razzisti, che legge libri razzisti, che guarda una televisione razzista, etc, etc, non è affetta da razzismo. Chiunque vive in una società razzista è affetto da razzismo. La gente bianca deve preoccuparsi del razzismo su due piani: a livello politico e a livello personale. E questa è una battaglia di tutta la vita per chi è seriamente interessato a lottare contro il razzismo. >>