Giulio Cavalli (Milano, 1977) è un noto scrittore di romanzi e pièce teatrali, attivista per i diritti civili e, dal 2007, vive sotto scorta per la sua continua lotta contro le mafie. Giornalista d’inchiesta e autore di diversi libri dello stesso genere, ha pubblicato numerosi romanzi editi da Fandango fra cui Carnaio (2018), Disperanza (2020) e Nuovissimo Testamento (2021). È con Carnaioche, nel 2019, Cavalli vincerà il Premio Selezione Campiello – Giuria dei Letterati.
Le sue opere sono spesso delle critiche dissacranti della nostra società, polarizzando delle opinioni che l’autore vede, in embrione, ben presenti nel nostro mondo. Con I Mangiafemmine, pubblicato da Fandango libri, Cavalli torna nel fittizio paese di DF, specchio di una società in cui nessuno ha la volontà di specchiarsi, ma i cui semi sono ben presenti fra di noi.
La trama
Nel periodo delle elezioni nella fittizia città di DF, la vittoria dei Conservatoriguidata da Valerio Conti non sembra essere più una certezza: la città è in preda ad un delirio di violenza, una vera e propria epidemia di donne assassinate per strada, a casa dai mariti e dai compagni.
Il candidato premier non si interessa della questione: sostiene che, alla fine, le donne sono sempre morte. L’onere è al genere femminile: le brave donne non muoiono, non corrono rischi.
L’opinione pubblica è scissa: la classe politica non è in grado di affrontare il problema, e si rifiuta di ritenerlo tale. Le poche attiviste di DF gridano al massacro, e vengono ridotte al silenzio. Cavalli narra di un mondo i cui tentacoli si stanno lentamente insinuando nel nostro: cosa succede quanto un’intera classe politica volta le spalle al problema?
Il governo di DF propone una legge per “regolamentare l’attività venatoria”: legalizzare il femminicidio. Ed è così, che Cavalli dipinge l’orrore.
Un problema sociale: la storia di Frida
L’intera opera di Cavalli ha un obiettivo molto preciso: mostrare come, nella città di DF, la violenza di genere sia un problema radicato nella cultura che li rappresenta. Il romanzo parte immediatamente narrando la lenta discesa nella violenza maschilista di un uomo qualunque, Tullio Ravasi. Egli si «trasforma lentamente in un ratto», come sottolinea l’autore, e questa metamorfosi ha luogo in un momento preciso: nell’istante in cui osa violenza su una tirocinante sul posto di lavoro, costringendola ad un rapporto sessuale con la promessa di una futura assunzione.
Da qui, le prime pagine sono una spirale lenta e dolorosa con un unico epilogo possibile: Tullio ucciderà sua moglie Frida, casalinga che lui stesso aveva isolato dal mondo circostante. Ed è qui che iniziano le prime riflessioni: la storia di Tullio e Frida è una storia plausibile, che sembra tratta da uno dei nostri quotidiani.
Frida aveva un lavoro, una vita fuori da essa e una sua indipendenza economica ed emotiva. Tutto questo le è stato strappato da un marito-padrone che, attraverso una sottile manipolazione emotiva, l’ha spinta a lasciare tutto ciò che era suo e che la spingeva fuori, relegandola al ruolo di casalinga e moglie. Frida è una delle prime vittime di cui DF ci narra.
La cosa più spaventosa della storia di questa donna, che altri non è che un archetipo, è che non è stato solo il marito a spingerla: le violenze che Frida inizia a subire immediatamente dopo il matrimonio, dal controllo emotivo ed economico fino alle vessazioni psicologiche, vengono continuamente giustificate da tutte le persone attorno a Frida. Sua madre e le sue amiche le diranno che Tullio la ama, è così perché è stanco. Quando le suggerisce di lasciare il lavoro, non lo fa per una cultura del possesso, che a DF, specchio del nostro mondo, trionfa dolorosamente normalizzata: lo fa perché non vuole che si stanchi, perché tiene a lei.
Il problema fondamentale è che nessuno attorno a Frida la aiuta, bensì tutti sono portati a giudicare i comportamenti di possesso e controllo di Tullio come una forma di attenzione e di amore. Le dicono che dovrebbe essere grata. Talmente grata che Frida, dopo poche pagine, morirà uccisa non solo da suo marito, ma da una società patriarcale e maschilista attorno a lei, che ha ignorato i sintomi di quella che è una malattia pervasiva: la cultura del possesso.
Questo è il punto centrale della prima storia a cui assistiamo: Frida aveva provato a chiedere aiuto ai suoi genitori, alle sue amiche, ma era stata rimandata indietro dal suo aguzzino con il suggerimento di essere meno pesante. Ed è questo che continueranno a ripetere di lei, dopo il suo brutale omicidio: aveva esasperato suo marito, lui tornava a casa e vedeva una moglie «dal muso buio, eternamente insoddisfatta e ingrata».
Ciò che fa veramente spavento, come sottolinea implicitamente Cavalli, è che DF non è altri che quello specchio malato in cui la nostra società non vuole guardarsi.
Tullio è descritto fin dall’inizio come un uomo perfettamente normale, quasi banale. Ma nella storia umana abbiamo spesso assistito alla banalità del male, ed è proprio questo il punto della storia di Tullio: l’uomo femminicida non è un mostro, qualcosa di altro dall’uomo in quanto specie. Egli è fin troppo umano:è il prodotto di una società patriarcale e maschilista, che ha validato la cultura del possesso secondo cui l’uomo possiede la donna come se fosse un oggetto. Ella non ha una sua libertà, non ha una sua autonomia ed una sua voce.
Si tratta di una cultura radicata nella società di DF, come nella nostra, e che passa attraverso i gesti di cui si è discusso in precedenza: Tullio voleva controllare Frida in tutti i suoi aspetti, relegandola solamente ad una casalinga pronta a obbedire ad ogni suo ordine. Quando ella è fuggita dal suo controllo, Tullio ha reagito seguendo il pattern che lo ha contraddistinto: le ha tolto la vita, non potendo accettare di non possederla più.
I Mangiafemmine: una legge per legalizzare il femminicidio
La proposta dei Conservatori di Conti è chiara: equiparare l’attività venatoria con il femminicidio. Legalizzarlo al fine di controllare il fenomeno, di regolarizzarlo attraverso dei criteri igienico-sanitari e delle liste di donne che possono essere cacciate. Perché, come è stato sottolineato in precedenza, le brave donne non muoiono: quelle che, secondo la legge, possono essere “abbattute” sono quelle che non rispondono ai dettami della brava moglie e casalinga. Le attiviste, le ribelli e tutte coloro che si rifiutano di essere equiparate ad un mero possesso.
Si tratta di un’ipotesi agghiacciante alle nostre orecchie, eppure a DF nessuno si oppone: solo Clementina Merlin, giornalista e attivista per i diritti femminili, reagisce sconvolta a questa proposta.
Quando ella cerca un dialogo con le persone accanto a lei, questi sembrano non considerare in alcun modo la gravità di quanto accaduto: una signora incinta in fila dal medico dichiara di non essere interessata alla questione poiché incinta, e le donne gravide sono escluse dalla possibilità di essere bersagliate, e per di più ella aspetta un maschio.
I partiti politici stessi minimizzano la questione, ed è proprio l’opposizione ad appoggiare questa proposta, giustificata su basi genetiche ed ormonali: in fondo, l’uomo uccide poiché geneticamente portato a farlo. A DF, l’uomo stupra perché è naturalmente portato alla prosecuzione della specie, non perché cresciuto da una società che non gli ha insegnato il consenso, facendogli credere di poter prendere da una donna ciò che più gli aggrada senza preoccuparsi dell’altra persona.
Egli la possiede come un oggetto, in tutti i suoi aspetti. E la legge sul femminicidio presentata a DF non è altri che l’atto estremo di una malattia che si è insinuata nella nostra società, di cui vediamo tutti i sintomi.
Il romanzo di Cavalli è una critica dissacrante alla nostra società e a quei retaggi culturali che la permeano. Egli ha estremizzato le conseguenze di qualcosa che, con dolore, bisogna ammettere che è già qui. Lo stile dell’autore è volutamente diretto: la violenza di DF arriva al lettore con rapidità e forza, impedendogli di non pensare alle terribili analogie che il mondo immaginario di Cavalli possiede con il nostro.
Si tratta di un libro che chiunque dovrebbe leggere: le parole di Cavalli sono evocative, e il lettore non può che porsi degli interrogativi su questo nostro mondo. Come sintetizza l’autore stesso:
Il problema non sono solo gli uomini che uccidono o che stuprano, il problema sono anche gli uomini che non uccidono e non stuprano, ma hanno il terrore di avere prima o poi bisogno di farlo.