Ne scrive il direttore de Linkiesta (e uno dei miei tanti direttori) Francesco Cancellato. Non proprio un comunista, eh:
Mille nidi in mille giorni. In un Paese messo male com’era l’Italia, con disoccupazione alle stelle, conti pubblici da panico, banche moribonde, una giustizia più lenta di un bradipo, una pubblica amministrazione specializzata nel mettere i bastoni tra le ruote a cittadini e imprese, una pressione fiscale da record, forse era l’ultimo problema verso cui puntare il dito. Forse è l’ultima cosa per cui prendersela
Eppure era importante, quella promessa che Matteo Renzi fece più o meno mille giorni fa. Era il 1 settembre del 2014 e quella era la conferenza stampa di ripartenza del governo, dopo i mesi estivi. E l’idea era ambiziosa e meritoria. Il tasso di copertura dei posti era allora fermo al 18%, contro il 33% (minimo) che chiedeva l’Europa. Ma non era solo una questione di regole europee. Più posti al nido, vuol dire più donne che possono cercare lavoro. Vuol dire redditi famigliari che crescono, consumi che ripartono, magari pure qualche figlio in più, che nell’asfissia demografica che soffoca l’Italia male non farebbe.
Doveva essere un fiore all’occhiello dell’azione governativa, insomma. Un modo – uno dei tanti, insieme alla banda larga, tanto per dirne un’altra – per far ripartire un Paese che soffriva di mal di futuro, costantemente proteso alla difesa dell’esistente, delle proprie rendite e dei propri privilegi. In fondo, il senso della sfida di Renzi se non tutto lì, stava soprattutto lì.
Allo stesso modo, però, sta lì pure il senso della sua sconfitta. Certo, il piano – giusto, utile, meritorio – per costruire un sistema educativo integrato dagli zero ai sei anni è partito e, a tendere, gli asili nidi smetteranno di essere un servizio assistenziale e diventeranno un servizio educativo. Tuttavia, spiace dirlo, di mille asili in mille giorni non c’è traccia. Anzi, le cronache raccontano di strutture chiuse e – come racconta l’inchiesta di Rita Querzé sul Corriere della Sera di lunedì 10 luglio – di posti che coprono solo il 70% del fabbisogno. Di un tasso di copertura che in tre anni, anziché crescere di quindici punti è aumentato solamente di tre, dal 18% al 21%, una crescita dovuta in parte alla diminuzione delle nascite, non all’aumento dei posti. E ancora: di rette in crescita che arrivano a costare anche 6-700 euro a famiglia. E di un divario tra Nord e Sud in aumento, anziché in diminuzione, anche a causa della progressiva chiusura delle classi primavera nelle scuole dell’infanzia, quelle in grado di accogliere in anticipo i bambini dai 24 ai 36 mesi.
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