Gianluca De Feo arriva al punto. Chiaro, netto, semplice:
La battaglia navale tra Italia e Francia non è solo questione d’orgoglio. Il mercato delle crociere è ricco, ma quello delle cannoniere promette ancora di più: entro pochi mesi si firmeranno contratti per una quarantina di miliardi, con le aziende controllate dai governi di Roma e di Parigi in diretta competizione. E se gli hotel galleggianti delle vacanze sono un business tra privati, le flotte da guerra invece restano un affare di stato.
Con una manovra a sorpresa, nel 2016 Fincantieri ha piazzato una bordata micidiale ai francesi: gli ha soffiato la commessa del Qatar, che prevede la creazione dal nulla di un’intera marina per l’Emirato del deserto petrolifero. Quattro corvette, una mini-portaerei, due pattugliatori e assistenza per i prossimi quindici anni nell’addestramento degli equipaggi e nella manutenzione. Significano un assegno iniziale da cinque miliardi diviso tra Fincantieri e Leonardo, entrambe nelle mani del Tesoro, e lavoro per diecimila persone, con tempi stretti perché il Qatar vuole schierare la flotta per i Mondiali del 2022 quando dovrà garantire l’ombrello anti- aereo per il Paese. Una vittoria eccezionale: ogni cosa verrà prodotta in Liguria, senza subappalti. E vendere le navi vuole dire imporre al cliente l’intera dotazione di radar e armi, uno shopping dove ogni gadget costa carissimo: se il Qatar completasse la fornitura con un apparato completo per intercettare i missili balistici, solo per quello ci sarebbe un altro miliardo da fatturare.
Quel trionfo è stato favorito da una congiuntura geopolitica forse irripetibile. Parigi ha pagato lo scotto per gli accordi militari con l’Egitto finanziati dagli avversari sauditi del Qatar mentre il governo Renzi ha sfruttato al meglio la debolezza della presidenza Hollande, offrendo l’impegno congiunto di ministri, industria e forze armate. All’Eliseo hanno fatto buon viso a cattivo gioco, aprendo le porte di Stx agli azionisti italiani e prospettando una nuova alleanza pure nel settore militare. In fondo, i due paesi erano riusciti a collaborare insieme sin dagli anni Novanta, con una relazione che aveva prima partorito i caccia della classe Orizzonte e infine le fregate Fremm – dieci per la nostra marina, otto per la loro – ritenute le migliori della categoria più richiesta dagli ammiragli d’ogni nazione. Ma nei sette mari si è aperta la corsa agli armamenti e i francesi hanno sete di vendetta. L’Australia è pronta a spendere una ventina di miliardi per nove fregate d’ultima generazione. Il Canada cerca quindici unità dello stesso tipo, con una somma simile sul tavolo. Si deciderà tutto in pochi mesi. E il paradosso è che Roma e Parigi si sfidano offrendo l’identica nave, la Fremm appunto, seppur con equipaggiamenti diversi.
Il vento è cambiato. Oltralpe al timone c’è Macron, ambizioso e dinamico, mentre a Palazzo Chigi si naviga sottocosta per chiudere la legislatura. Lo stato francese ha ben strutturato i suoi investimenti: possiede il 62 per cento del cantiere militare Dcns mentre un altro 35 per cento è di Thales, il colosso dell’elettronica dove il maggior azionista è sempre pubblico. Insomma, c’è un’unica regia nel promuovere navi e radar mentre da noi Fincantieri e Leonardo seguono rotte parallele. A Parigi hanno fatto sistema e vogliono imporlo all’estero con tutto il peso del Paese, dei suoi ammiragli, della sua diplomazia e delle sue banche.
Il problema di fondo è che Fincantieri e Leonardo sono le uniche grandi compagnie nazionali rimaste a concepire tecnologie avanzate. Entrambe nello scorso decennio hanno preferito investire negli Stati Uniti, con una scelta strategica che rischia di tagliarci fuori dai grandi giochi europei o quantomeno dal nascente asse franco-tedesco. L’intesa tra Macron e Merkel per la costruzione di un superjet da combattimento e di droni militari potrebbe abbattere il futuro dell’industria aeronautica italiana, retrocessa a mero assemblatore di pezzi del programma statunitense F-35. E in mare il nostro catalogo per l’export è quasi la fotocopia di quello francese, che si tratti di fregate o navi tuttoponte: più della qualità dei prodotti, conta la capacità dello Stato di siglare alleanze globali e contare a livello internazionale. Uno scenario senza alternative: o si riesce rapidamente a cambiare oppure il declino è inevitabile.
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